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  • Immagine del redattoreAlessia Luongo

La Galassia Goffredo Petrassi

i satelliti di un'altra vocalità: Beatitudines (1968) e Laudes creaturarum(1982)

 

Bisogna sempre fare attenzione e porre molto riguardo quando si analizzano le opere che segnano per un artista un "prima e un dopo". Quando si può effettivamente parlare di altra vocalità e piena maturità, vale a dire il trampolino che l'artista utilizza col suo ingegno per immergersi in tutt'altra sperimentazione?

Che sperimentazione spesso non è, perché l'artista è anche continuamente impegnato a migliorare sé stesso e quello che ha creato negli anni passati. Quindi rimescola il suo ‘brodo primordiale’, le sue conoscenze e le sue attitudini artistiche maturate negli anni per poter sfornare un prodotto che sia sempre nuovo e antico, ma che parli sempre di sé stesso.

E' introducendo questo discorso che tratterò le opere di Goffredo Petrassi, che ha una riconoscibile firma che lo accompagnerà nel corso degli anni: strumenti per lui prediletti, quali i tromboni e i clarinetti da cui sapeva cavare un suo pensiero;l’utilizzo di timbriche importanti quali quelle del violoncello, del contrabbasso per le sue composizioni strumentali e non solo; l’uso neomadrigalistico degli strumenti a fiato che permeano alcune sue composizioni; l’utilizzo frequente degli ottoni per enfatizzare il carattere sacrale di determinati brani, ma che sottolineano anche marce militaresche contenute in alcuni passi nonché l’utilizzo di testi liturgici non per fini religiosi, ma per esibizioni concertistiche. Evidentemente per esorcizzare il ‘trauma’ del suo passato di fanciullo cantore presso la Chiesa di San Salvatore in lauro, a Roma. D'altronde non nasconde lo stesso Petrassi un rapporto molto complicato con la fede. Cattolico dichiarato, ma con alcune riserve. Dice di sé stesso, citandolo "religioso con pochissima fede".

Un rapporto contrastato che si espande dal suo io di credente alla sua musica e alla società.

Goffredo Petrassi è figlio di un'epoca complicata, contraddittoria, difficile. Nato a Zagarolo, entra a sette anni come fanciullo cantore alla Schola Cantorum di San Salvatore in Lauro: compositore che opera durante la seconda guerra mondiale;aderisce anche al partito fascista, si diploma in composizione nel 1932 e matura pienamente la sua formazione compositiva, specializzandosi ulteriormente l'anno seguente in organo. La sua epoca è sicuramente permeata da quello che poi diventerà il tratto distintivo della scrittura petrassiana: un amore per il ritorno all'antico e un superamento delle regole, per crearne di nuove.

D'altronde siamo agli albori dell'interesse per gli interpreti verso il recupero di strumenti storici quali il clavicembalo, e siamo anche nel periodo in cui la dodecafonia di Schoenberg si impone in vari contesti.

Goffredo Petrassi è il meraviglioso risultato di queste forze contrastanti.

Egli insieme a Ferruccio Busoni, Ottorino Respighi e Alfredo Casella è tra i più amati compositori italiani e punto di riferimento. Tra l'altro è fondamentale anche il connubio con Alfredo Casella che è per lui guida artistica, ma non direttamente maestro: Petrassi conosce Casella nel 1932, e il maestro rimane molto impressionato dalla composizione Tre cori con piccola orchestra, saggio dell'ultimo anno di composizione di Petrassi.

Casella ha avuto interesse moderato per la dodecafonia; Petrassi ovviamente vi si immerge ma ne resta quasi impermeabile. (Anche se potremmo svelare delle sequenze seriali in una sua preziosa composizione che è Serenata).

Goffredo Petrassi si racconta in un'appassionata intervista a Enzo Restagno nel 1986, enfatizzando i momenti forti della sua formazione artistica, partendo da autodidatta ma avendo ricevuto lezioni gratuite da una Maestro di conservatorio, Alessandro Bustini. Enfatizzando quanto fondamentale sia stato anche quel trascorso più rudimentale per fare esperienza sul campo; ma è con Sinfonia di salmi di Stravinskij che Petrassi raggiunge un'autentica rivelazione: una modernità dirompente.

Ma di Stravinskij conserva non solo la grande espressività, ma alcuni caratteri che prenderò in analisi tra i quali: gli archetipi del sacro e una scrittura che, per Petrassi, malgrado le sue intenzioni, si accostava benissimo come quella dell’altro al balletto.

Entriamo nello specifico della firma del Maestro, affrontando le sue composizioni più importanti e parlando di vocalità, perché è il tema che ha aperto questa analisi e appunto il superamento e anche il legame con le sue composizioni sia giovanili che della maturità.

Giovanili ma non per questo ingenue, sia chiaro.

Eccellente compositore per strumenti e per orchestra, affronta con immensa sapienza e capacità anche il repertorio della musica cantata e parlata. Quando un compositore di tale esperienza affronta la vocalità e avverte l'esigenza di inserirla nella sua opera, la decisione non può mai essere banale e superficiale.

Come introducevo all'inizio di questa analisi, il segno distintivo di questo Maestro è che sa imparare dal sé stesso del passato, aggiungendo e arricchendosi dalle sue esperienze. Mi riferisco appunto ad altre opere dove ricorre all'uso della vocalità. Si prendano come esempio Salmo IX per coro e orchestra del 1934 e Coro di Mortiper coro e strumenti del 1941.

Queste due opere hanno come punto in comune l'uso importante degli ottoni. In Salmo IX vi è una deliberata abolizione dei legni: la partitura richiede solo ottoni, percussioni, archi e pianoforte. Da notare la finezza di aggiungere un secondo pianoforte nella seconda andata in scena, laddove ne aveva segnato soltanto uno in partitura. D'altronde, l'arte si compie ‘mettendola in scena’, e di questo Petrassi conosce bene il significato, ammettendo lui stesso che la pratica da autodidatta è valsa quanto lo studio accademico nei primi anni della sua formazione. Evidentemente il Maestro ha sentito il bisogno di un supporto più importante da parte del pianoforte, laddove comunque non è quello lo strumento principale, bensì proprio gli ottoni che hanno una funzione sacrale importante e a livello immaginifico predominante, ma impiegando il Salmo IX un testo appartenente all'antico testamento rivelatore di un Dio guerriero e di un clima militaresco. Uno snodo sismico, profondo che ha in comune con Coro di Morti, composto nientemeno chedieci giorni dopo l'entrata in guerra dell'Italia, nell'anno 1940.

Il coro di voci è maschile. Mentre in Salmo IX vi è un coro misto, qui vi è solo il timbro scuro. I tre pianoforti legano la partitura, ma il madrigale drammatico è portato avanti dalle percussioni e dai contrabbassi che si fondono in maniera tragica, immersiva nella partitura dandole consistenza e autorevolezza.

 

Queste composizioni già dense di tutto ciò che Petrassi ha amato e analizzato, ci parlano di quelle che andremo a sviscerare, ovvero le opere della piena maturità: Laudes Creaturarum - obolo francescano del 1982 e Beatitudines - testimonianza per Martin Luther King del 1968.

 

Beatitudines è effettivamente la riproposizione sonora di un passo del Vangelo secondo San Matteo e si tratta delle dichiarazioni di Gesù nel racconto biblico del discorso della montagna.

Laddove Gesù racconta il premio dell'essere umano in cielo dopo la morte per chi rispetta i comandamenti e le sacre virtù, la vicenda musicale si fonde drammaticamente con la testimonianza di Martin Luther King, attivista politico e pastore protestante statunitense, ucciso nel 1968.

La composizione dell'anno successivo è per la Pro Civitate Christiana di Assisi e il suo organico ci immerge già nella tavolozza sonora che il Maestro vuole impiegare: clarinetto in mi bemolle, tromba in fa, viola, contrabbasso e timpani a pedale. Un organico dalla timbrica ovattata, non squillante. Vi è una sola voce solista che può essere basso o baritono.

Siamo all'interno di un dialogo tra la luce e l'ombra.

In che senso luce ed ombra? La luce è rappresentata dagli accenni della tromba e dal clarinetto e l'ombra è la voce molto scura, non a caso un basso o baritono.

Beatitudines ha un modo di enunciare i versetti secondo una modalità ad arco. Lo strumento accompagna in un progressivo innalzamento della tensione, per poi quasi all'interno di un ciclo vitale, tendere all'abbassamento.

Si noti questo passaggio:


Inoltre, come appunto in un ciclo, tutto nasce e ritorna allo stesso punto; la prima enunciazione del basso parte dal Mi e torna al MI e sulla pausa della vocel'enunciazione del versetto è divisa in due parti.


Nella seconda enunciazione assistiamo ad un crescendo; più brusco il passaggio ma sempre un ritorno, una costante di questa composizione.

Vi sono delle zone di intensità dove il tempo di battuta viene dichiarato e alcune volte sospeso, come nel caso della battuta 100 dove vi è un crescendo di tutti gli strumenti, con la sola eccezione del contrabbasso.



Non vi è nulla di lasciato al caso in questa composizione, ivi compreso il melisma della voce, che viene più volte ripetuto. Nella battuta 95 le note non posseggono neanche la loro forma tradizionale, quasi che il Maestro abbia voluto enfatizzare l'altezza dei suoni, ma non la durata.

Io oserei aggiungere un omaggio alla musica gregoriana, che Petrassi ben conosceva per i suoi trascorsi giovanili, ma anche perché non è di certo nuovo alla scrittura di musica per strumenti antichi (come nella composizione Serenata, dove vi è l'uso del clavicembalo, anche se non propriamente quello storico, la sonorità resta quella).



Questo assetto in Goffredo Petrassi per me è una nuova forma di composizione su quello che era un requiem; i suoni non fanno musica, ma parlano. Sembra che il canto accompagni la musica e non la musica il canto.

D'altronde lo stesso Petrassi nel suo seminario di composizione del 1976 definisce questa sua scrittura un tripudio all'immobilità strumentale.

Ma io mi permetto di contraddire il Maestro.

La composizione non sembra per niente qualcosa di statico, bensì complice il tema e l'andamento, io avverto quasi l’andamento di una processione. Una camminata molto lenta, dove appunto i metri si macinano difficilmente, ma qualcosa viaggia.

Ricorda una via crucis dove alle enunciazioni ci si ferma e si prega. Per il tema trattato e per la situazione e il personaggio a cui è rivolta tale composizione, io penso sia una via crucis dell'anima.


Il tamburo dà la sensazione di quanto la nostra coscienza sia sporca. 

Il contrabbasso ci trascina nelle parti oscure di un delitto che appartiene all'umanitàintera



Il cambiamento di andamento sopra riportato è come se istituisse nell’ascoltare un cambiamento di fase.

Infatti, la composizione si divide in due parti: la riflessione inerente alla processione, ma alla fine il verdetto finale, spietato.

Alla fine vi è la persecuzione e la morte.

L'uso degli strumenti è teatrale, ecco perché il Maestro raccoglie secondo meun’influenza molto diretta da parte del genio stravinskijano; la musica non ha uno spartito bensì un copione, perché la voce non è al centro.

Le parole, per quanto conosciute e famose, tendono a non essere di comprensione immediata, ma non per mancata dimestichezza dell'interprete, forse perché siamo incanalati in altre sensazioni dove la parte verbale ha suono ma non ha parole. La voce a mio parere avrebbe potuto anche cantare in grammelot e sarebbe stato comunque efficace; certo avvalendosi di un grande testo sacro come il Discorso della montagna, il lavoro artistico sublima qualcosa già di per sé alto.

 


Nell'intervista a Enzo Restagno spesso prevale da parte del Maestro una sorta di pudore e umiltà nei confronti della sua scrittura, il non voler affidare a dei personaggi ciò che lui intimamente pensa e sente; ma se posso nuovamente espormi questo grande compositore fa un ulteriore scacco matto alla coscienza: per me tramite quello che percepisce un personaggio teatrale, si mette molto a nudo ciò che prova. E questa composizione che appartiene a una dimensione interpretativa, restituisce immagini e lamentazioni.

Il finale è fondamentale quanto l'inizio.

La Voce diventa eco alla fine. Di più, perde totalmente l'intonazione.

Non c'è effetto che tenga a questa dichiarazione di un verdetto che non appartiene più all'essere umano ma alla sfera divina.

 


Per me quest’opera dovrebbe essere assolutamente riproposta; starebbe molto bene in un’installazione dei Festival della Biennale di Venezia.

 

L’altra importante faccia del lavoro petrassiano è in Laudes Creaturarum – obolo francescano per voce recitante e sei strumenti: due clarinetti in Si bemolle, clarinetto basso in Si bemolle, due tromboni tenor-basso e violoncello. In questa composizione è chiaro lo spazio dato ai fiati, che la fanno da padrone. Tale lavoro è stato composto per la Sagra Musicale Umbra, con una sua prima rappresentazione il 28 settembre 1982 ad Assisi. Questa analisi si confronterà anche con la testimonianza di un importante direttore d’orchestra, il Maestro Enrico Renna che nel 1983 per il festival pontino diresse tale opera.


Questo lavoro di Goffredo Petrassi è importante perché è l’unica sua composizione dove vi è una voce recitante e non cantata. Anche un altro Maestro usa tale tecnica del parlato ritmico, proprio Igor Stravinskij. Tale lavoro lo immette assolutamente sulla linea dei grandi Maestri.

Gli strumenti che vengono usati sono i suoi prediletti: i tromboni e i clarinetti che Petrassi sa far ‘cantare’ al di là delle loro sonorità.

L’organico affidato al Maestro Renna che lo ha diretto e ha dovuto penetrare profondamente nelle dinamiche di pensiero e artistiche di chi lo ha concepito, è stato definito quasi ‘francescano’, ed è molto bello l’accostamento.

Laudes creaturarum è infatti la preghiera di San Francesco per la natura, diviso in tre parti: inizialmente le ultime volontà di S. Francesco a S. Chiara, il nucleo centrale con l’invocazione e il finale che è un’orazione dove morte e vita sono profondamente legate. Tra l’altro, come anche la natura crea questi intrecci.

Vi è da dire che nella composizione di Petrassi il violoncello ha rare incursioni, ma sono le più efficaci e sottolinea tra l’altro che debbano essere pur se in sordina “sempre forte” e queste sono raffinatezze timbriche di un certo spessore; perché la sordina smorza il suono e suonato in “forte” acquista un timbro molto particolare. Appare contraddittorio tutto ciò, ma in realtà è la forza di questa composizione.

Il violoncello ha appunto sporadiche apparizioni, ma relegate in ruoli importanti. Ad esempio, è proprio tale strumento a introdurre la voce recitata.



Questa partitura è eloquente: vi è palesemente l’uso della tecnica del neomadrigalismo, che ha da sempre affascinato il Maestro Petrassi.





Quello che è particolare è che gli strumenti adottano continue variazioni ritmiche. 

Ora prenderò in analisi la registrazione che si dispone dove la voce recitante èaffidata a Riccardo Cucciolla, diretta dal Maestro Luigi Lanzillotta, che non è direttore d’orchestra, bensì violoncellista.

La voce nella registrazione rimane monotona e pesante. Non sta recitando bensì nella recitazione registrata che abbiamo, sta leggendo dallo spartito e questo si avverte molto. Lo stesso Maestro Renna tende a sottolineare che tale incisione non tiene conto delle indicazioni ritmiche che sono state trascritte da Goffredo Petrassi.

Gli strumenti sembrano la natura, la voce il marmo.



Tornando alla partitura, la sensazione che si ha è che si sia in una stanza che gira, un ambiente come una sfera, un’ampolla. Alcune volte abbiamo accenti bruschi, ma ciò accade anche perché la natura ha un ordine tutto suo, dettato dai suoi regimi.

Quello che ho percepito in questo lavoro è la connessione tra la natura e l’uomo, nient’affatto pacifica; anzi, gli strumenti sono l’elemento più vicino alla natura, coprono addirittura la voce per la bellezza e l’estro perché effettivamente non si può negare che ciò che ci circonda è più grande di noi e siamo noi ad essere in balia della natura; c’è da dire che Dio infatti secondo le antiche scritture, creò prima il mondo e noi umani siamo stati la sua ultima creazione.

Io sento quasi una natura che si vendica, perché c’è anche un senso di oppressione che si avverte e che comunque non viene liberato come sembra dal finale, che invece resta molto inquieto e che apre la mente a ragionamenti sull’eterno e sulla morte, con l’orazione che quasi come il finale di Beatitudinesvuole essere verdetto.



Tutti gli strumenti diventano sinonimo dello spirito che vola via e si avvicinano alla loro forma più naturale e vera nel divenire canali per il soffio d’aria, che a noi crea emozioni.

D’altronde, l’emozionalità è ciò che governa il mondo.

Enzo Restagno nell’intervista al Maestro Petrassi enfatizza continuamente la sua maestria, il suo estro e la sua capacità, ma ho amato il passaggio in cui Petrassi prende forza e dice “Maestria sì, ma anche tanta tanta emozionalità”.

E ciò è innegabile.

Lo riconosce anche il Maestro Renna nel mettere in scena nel 1983 con una grande responsabilità, le sue Laudes. Lo riconoscono il pubblico e il singolo ascoltatore.

Lo si riconosce in quel senso di fede che sicuramente resta sofferto per Goffredo Petrassi, e che ha avuto sicuramente da ridire sempre con il suo passato.

Ma è stato un uomo che ha potuto confrontarsi con amori storici e idee del domani, lo stesso che ha vissuto in un’epoca in cui si inneggiava all’antico, ma che lui come artista, ha sempre dato la possibilità e l’orecchio agli studenti di composizione, per poter diventare sempre a sua volta allievo e quindi crescere sempre di più come Maestro e come ascoltatore di un panorama musicale che attorno a lui andava crescendo.

In particolare, credo che di Laudes Creaturarum si dovrebbe incidere una nuova registrazione per poter valorizzare tutto ciò che è stata la spritualità di Goffredo Petrassi.

Vi sono brani che anche se moderni e appartenenti a un’epoca contemporanea, restano antichi. Ma non è il caso di Petrassi, i suoi componimenti permettono alle sue note di essere straordinariamente attuali e oltrepassare così il tempo della creazione.

 



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