Abbiamo tutti le nostre meravigliose contraddizioni, è così che si delinea il carattere e sono proprio le piccole debolezze che ci emozionano.
C’è un luogo che ho in particolare nel cuore, il più bello della città di Napoli… il Chiostro di Santa Chiara.
Una magnificenza barocca che ti disorienta e stordisce, che ti acceca, ti isola e rimette al mondo.
Chi lo ha visitato con costanza e attenzione ha visto che al suo interno vi sono della rappresentazioni musicali. Posso mai esimermi, quindi, dal commentare tali preziose collezioni? No. Anche perché sono molto più interessanti di quello che possano sembrare (da qui l’incipit di questo articolo) perché proprio qui vi sono nascoste delle piccole contraddizioni proprio in seno alla chiesa, nello specifico questa.
Vi sono delle scene collettive di danze e balli. Possiamo notare in questa rappresentazione una scena conviviale; delle persone sono sedute, altre compiono azioni musicali, applaudono ballando e tengono il tempo sul ritmo probabilmente di tarantella. Protagonisti sono una ballerina che tiene il tempo con le castagnelle e un musicista che suona il colascione. Una vera e propria dimostrazione di una tarantella arcaica con addirittura solo uno strumento e probabilmente delle castagnelle di accompagnamento (dato che non si può confermare a causa del fatto che non si vede bene nella rappresentazione). Dobbiamo immaginare assolutamente un suono ancestrale, un suono dove solo un colascione riesce a tenere il ritmo di tarantella. Qualcuno è partito proprio da queste iconografie per inciderci tutto un album e fondare un progetto… Ebbene sì, mi sto facendo self-promotion, concedetemelo (il mio primo album “Largo di Castello” volutamente recupera proprio queste maniere di accompagnarsi al canto e alla danza con solo uno strumento per brano per riportarvi direttamente in un’atmosfera di questo tipo). Il colascione è uno strumento popolare delle piazze delle XVII secolo, detto anche “tiorba a taccone” e il suono basso e profondo è stato quello che più mi ha incuriosito e entusiasmato quando ho compiuto le mie ricerche sul suono delle piazze. Lo potete vedere anche voi: l’immagine dimostra come solo su un colascione (che non è efficace come una chitarra battente, un violino o altri strumenti dalle sonorità più forti), riuscisse a far ballare la gente e a far creare incredibili coreografie. Oltretutto, non è l’unica iconografia in cui si vede il colascione “riempire le piazze” ed essere solista in scena, vi sono i famosi “Balli di Sfessania” di Jacques Callot che ne sono la palese dimostrazione. Ebbene, potendo studiare sullo strumento e recuperando io stessa dei canti interpretati in maniera volutamente grottesca, posso confermare che usandolo in una maniera quasi più simile all’accompagnamento di un tamburello e tammorra, ciò è possibile. Si può quindi riempire una piazza con solo un colascione. Il tutto viene poi sublimato dallo spirito di voler far danzare e divertire, di poterlo usare alla stregua di una percussione. Ovviamente, come sempre ripeto in diverse occasioni, dobbiamo immaginare “piazze” che non sono quelle di oggi, molto più silenziose (basti pensare non esistevano le macchine, le musiche orripilanti dei bar, etc), piazze che erano architettonicamente predisposte e non per ultimo, bisogna concepire la piazza nel 1600 come un luogo dove avvenivano contemporaneamente mille eventi e situazioni. Nel frattempo che si danzava una tarantella in un angolo, bisognava immaginare il mercato poco distante, ancora più in là il menestrello richiamava l’attenzione per ricordare gli inizi degli orari dei suoi racconti e tanto altro. Per cui, la distrazione era sempre dietro l’angolo, ma si aveva anche un maggiore interesse a seguire determinate azioni se davvero interessati.
Proseguendo la nostra passeggiata nel chiostro, ci avviciniamo alla motivazione che mi ha fatto scegliere questo titolo per l’articolo. Vediamo un’altra scena di danza e un uomo che accompagna probabilmente con uno scetavajasse. Un uomo vestito in maniera buffa: camiciotto bianco, cappello marrone e maschera bianca.
L’ultima volta che sono stata al Chiostro di Santa Chiara credo e temo sia stato circa sei mesi fa. Una turista accanto a me ha indicato una delle maioliche e ridendo ha detto “Guarda che nasi lunghi!”, la persona accanto le ha risposto “Non sono nasi, indossano la maschera.” L’idea dell’indossare la maschera e divertire e incuriosire ha funzionato ancora attraverso un’immagina a distanza di secoli.
Ecco che nel Chiostro di Santa Chiara incontriamo rappresentazioni delle origini delle commedie musicali; colpisce ed entusiasma, ma prego di prestare attenzione. E’ spettacolare che un chiostro abbia testimonianza della commedia dell’arte nella sua rappresentazione mentre suona, accompagnando la scena e ballando, forse cantando assieme alle donne, oppure lasciando il canto alle donne. Le immagini non restituiscono i suoni… ma se potessero! Resta lo studio, l’attenzione e la fantasia.
Quello che vediamo è un piccolo cavallo di Troia proprio all’interno delle mura più sacre. L’antipatia (reciproca) tra i commedianti dell’arte e la Chiesa è storica, ma quando si dava vita tramite le immagini a quelle che era la vita fuori, ignorare un fenomeno culturale così importante e prepotente sarebbe stato totale follia.
Vediamo un momento musicale bellissimo delle maschere che suonano (forse ripassano un canovaccio oppure suggeriscono il ritmo e le parole al compagno che suona il putipù).
Un’altra immagine rappresenta il loro arrivo (Oppure è addirittura una scena all’interno di una commedia?)
E un'altra maiolica è proprio una messa in scena, dove si vede lo svolgimento di un’azione e dei compagni di scena che attendono di entrare per dar proseguimento alla storia.
Il paragone tra i costumi utilizzati (i camiciotti bianchi che si possono datare verso la fine del rinascimento) e gli strumenti sempre di uso popolare e anche l’interazione tra loro tipica della commedia dell’arte, pare evidente.
Questo è un’iconografia dei “Balli di Sfessania” di Jacques Callot e sembra non ci siano dubbi sulla loro somiglianza.
Tuttavia riguardo al Chiostro di Santa Chiara, non abbiamo le prove certe che queste siano vere e proprie rappresentazioni della commedia dell’arte, anzi. Credo si tratti piuttosto di una dimostrazione di una farsa carnevalesca di piazza. Da cosa lo deduco? Partendo proprio dai costumi e dai personaggi presenti. Non vi sono i tipi fissi legati al teatro della maschera e tuttavia, rappresentano tutti il personaggio “zanni”, ovvero il personaggio con camiciotto bianco e cappellaccio.
Quello che io posso dedurre è che questi personaggi piuttosto stiano mettendo in scena una rappresentazione popolare, una farsa quasi più carnevalesca simile al tipo di “Canzone di Zeza”; lo deduciamo dal fatto che è comunque una rappresentazione dove i personaggi non posseggono le varietà drammaturgiche teatrali richieste per mandare avanti un canovaccio e dall’onnipresenza dello strumento musicale.
Proprio all’interno del Chiostro di Santa Chiara vediamo quindi una rappresentazione carnevalesca, il che diverte perché proprio se si parla delle rappresentazioni di farse simili alla “Canzone si Zeza” queste venivano trovate talmente volgari e inconcepibili da mettere in scena durante gli altri periodi dell’anno, che furono relegate proprio al periodo di carnevale per nasconderle all’occhio della gente. Peccato è che più si vuole celare… più questo si mostra, infatti questa rappresentazione continua ancora oggi, sopravvissuta nella tradizione popolare. Questa è l’ennesima dimostrazione di come il sacro ammirasse il profano e di come il mondo più carnale strizzasse l’occhio a quello più celestiale.
D’altronde, credo nel nostro animo siamo tutti composti da oro e piombo, così come tutte le città si poggiano architettonicamente su basi più spesse per slanciarsi poi verso l’altro. Ecco, Napoli è esattamente l’emblema di quello che ha dentro sé: vive di splendide e antiche contraddizioni che oggi si disperdono come polvere al vento, ma che andando a scavare e studiare, ricordando che lo si fa per una memoria storica, ancora si possono trovare.
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