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Immagine del redattoreAlessia Luongo

Di maschera in maschera: il ruolo del popolare nel "Convitato di Pietra" di Giacomo Tritto (o' sparagno de l'assequia)

Il tema del Don Giovanni è un tema ricorrente nella letteratura, nella musica e nel teatro. Un tema ancestrale che appartiene a tutte le culture e epoche. Comunemente le opere più rappresentate e conosciute sono quelle di Molière per il teatro (che a sua volta impara tale canovaccio da Tiberio Fiorilli, commediante dell'arte che opera intorno al 1620 e che si dice abbia in tal modo fatto conoscere i "lazzi italiani" nel mondo) rappresentata per la prima volta a Palais-Royal il 15 febbraio 1665 e la versione di Mozart per la musica su libretto di Lorenzo Da Ponte andata in scena per la prima volta il 29 ottobre 1787 al Teatro degli Stati di Praga (nome moderno). L'antropologia di questo archetipo mostra che la sua origine proviene da un canovaccio di commedia dell'arte e quindi da storie che appartengono alla tradizione orale e non solo scritte. Sotto il nome di "Convitato di Pietra" abbiamo varie rappresentazioni della stessa storia. Abbiamo testimonianze di fonti dirette scritte da Andrea Perucci del 1678 che stende una rielaborazione della leggenda archetipica di Don Juan e Ciro Monarca (fonte conservata nelle opere regie presso la Biblioteca Casatenese di Roma). L'opera di Tritto ha così grande validità e importanza perché incarna l'anello di congiunzione tra l'arte popolare della commedia e quella più sofisticata del canto e del recitativo messo in musica, dall'uso della maschera dal punto di vista più puramente teatrale e ancestrale a quello più a portata dei ceti borghesi usandola sul palco. Da qui il

titolo del mio articolo, che è anche una piccola anticipazione: "Di maschera in maschera", dove per maschera si intende banalmente la maschera della commedia dell'arte e del suo uso nell'interprete di Pulcinella e della voce "in maschera", nel senso di canto impostato scenico.Il mondo operistico ottocentesco ha preso il sopravvento nelle maniere e nelle mode, facendo cadere nel dimenticatoio di alcuni interpreti e direttori artistici tale capacità di poter essere spettacolari a trecentosessanta gradi.

La storia di Giovanni Tritto su libretto di Giambattista Lorenzi, la cui prima rappresentazione ebbe luogo a Napoli, al Teatro dei Fiorentini nel carnevale 1783, è assolutamente il regno del teatro popolare messo in musica; seppure il protagonista sia Don Giovanni, largo spazio e azione scenica fondamentale è lasciata al mondo del popolare: Pulcinella e gli altri personaggi popolari che si alternano in scena, hanno un uso del dialetto marcato e insistente, contrapposto al linguaggio dei personaggi più colti. Rispetto alla versione del Perrucci bisogna anche riconoscere che il parlato dei nobili risulta sobrio, asciutto e più drammatico. Non mancano similitudini analizzando e studiando lo spartito del Maestro Tritto e il libretto dell'autore Lorenzi con la versione teatrale del Perrucci. Entrambi i libretti raccontano di "danze al calascione" e ho potuto riconoscere addirittura dei temi popolari riconoscendo così la sapienza delle tecniche dei comici e musici napoletani. Ricorrono, difatti, metafore a doppio senso e modi di dire proverbiali, addirittura canzoni attinte dal repertorio popolare e perfino canzoni tradizionali. Lo stesso Tritto quindi cita direttamente Perucci, che scrive di Rosetta nella scena XII il suo canto:

Marina, Marinella, o bello maro,

a la banna de la marino è lo mio bene.

e introduce la tradizionale formula di introduzione al ballo della tarantella

A lo maro la Tarantella

E la caratteristica danza napoletana viene ballata da Pulcinella e da Pimpinella, sua sposa con un'indicazione scenica importante: enfatizza l'uso degli strumenti popolari quali "calascione" e "tamburelli" per accompagnare il momento di danza. Gli stessi strumenti che Lorenzi riprende nella didascalia.

La grande opera di Tritto diventa un anello di congiunzione fondamentale e come

questa rappresentazione abbia una sensibilità prettamente legata al mondo napoletano.

Nella bliblioteca nazionale di Napoli è conservato "Lo Gibaldone da soggetti da recitarsi

all'impronto". Lo Zibaldone fu raccolto da Annibale Sersale, conte di Casamarciano. Nel

secondo volume di questa raccolta, recuperata stavolta da Benedetto Croce, troviamo il

canovaccio del Convitato di Pietra. Questo vale a dire che in particolar modo nelle

compagnie napoletane di commedia dell'arte, questo era un tema molto ricorrente.

Ulteriore conferma la dona la moderna filmografia: "Il viaggio di capitan fracassa" del 1990 diretto da Ettore Scala. In una rappresentazione di teatro di piazza si presenta al pubblico la scena del convitato di pietra con Massimo Troisi nei panni di Pulcinella, servitore di Don Giovanni. La dimostrazione del fatto che Don Giovanni sia un archetipo molto più legato a una cultura appartenente al sud Italia, si può notare dai cataloghi degli scenari delle compagnie del Nord Italia, dove non vi sono tracce del tema del Don Giovanni. Basti controllare le raccolte del "Teatro delle favole rappresentative" (pulciani venezia 1611), "Raccolta di scenari più scelti d'istrioni" (biblioteca corsiniana Roma), "Gli scenari" (biblioteca museo correr di venezia, collezione di Teodoro Correr 1750-1830). Non a caso l'unica versione musicale di questa storia è napoletana e il dialetto usato è appunto quello partenopeo alternato al linguaggio più borghese.

Dal punto di vista musicale, nulla è a caso e rimanda al mondo della piazza; l'opera si apre con una brillante sinfonia in Sol maggiore, tagliata in un unico movimento (Allegro) che dispiega l'intero organico orchestrale: due oboi, fagotti, due corni, archi, clavicembalo.

Anche se compaiono dei clarinetti nel cosiddetto "autografo" della Biblioteca San Pietro a Majella di Napoli, ma sono evidenti aggiunte posteriori. La tonalità che appare semplice e che non lascia alcuno spazio per la tragedia che di lì a poco si va consumare, è a livello drammaturgico musicale geniale: questa introduzione tipica tra l'altro di una qualsiasi rappresentazione in piazza, che aveva bisogno che il pubblico fosse da prima coinvolto, divertito e incuriosito, lascia spazio a due temi ben delineati, alla tonica e alla dominante, uno breve sviluppo in tontalità vicine (re, fa maggiore, sol minore) e una ripresa basata essenzialmente sul secondo tema. La successiva Introduzione è invece nella tonalità fondamentale dell'opera: mi bemolle maggiore. La discalia recita: "Don Giovanni con cappa e Pulcinella con lanterna e spada sotto il braccio, Suonatori e poi Chiarella sul terrazzo".

Ecco dall'inizio che quindi si intravvede la figura che secondo me raccoglie più

fraintendimenti e maggiore significato di tutta l'opera: Pulcinella. Mi focalizzo su tale figura perché egli in questa opera deve avere capacità eguale nel canto e nella recitazione. Tutto questo viene spesso sottovalutato sia negli studi dei libretti e negli allestimenti. Maschera potentissima del mondo popolare, porta con sé in scena tutte le sue meraviglie e contraddizioni. Riporta il suo repertorio eccellente di comico e permette momenti esilaranti.

Ad esempio nella scena III Pulcinella esegue "il lazzo dello spagnolo" come indicato proprio nel libretto; questo lazzo non lo ritroviamo solo nel Don Giovanni , ma anche nel canovaccio "Pulcinella duellista notturno" scena I, commedia di autore ignoto stampata a Napoli (Tommaso Pironti editore, 1909). Ma trascina con sé anche tutti gli archetipi profondi che possiede. Egli appare come servo di Don Giovanni, ma ha come simbolismo in modo palese, la morte. Da studi antropologici e teatrali compiuti, si riconosce che le maschere soprattutto appartenenti ai personaggi Zanni e Capitani abbiano riferimenti stretti con la morte, proprio perché a livello antropologico derivano da gallinacei. I gallinacei nella cultura partenopea sono spesso associati al culti funebri. Si sa bene come Pulcinella derivi da una gallina o secondo alcuni studiosi, da un piccolo pulcino. Il bianco del vestito rappresenta la vita e la morte, ricordando il lenzuolo dove si nasce e dove si muore, simboleggiando più profondamente il sudario. La maschera nera è segno di lutto. Non è un caso che una maschera del genere sia il servitore di Don Giovanni, che non ha paura né della vita né della morte.

Nella scena XV fatale sembra quasi sia Pulcinella a metterlo in guardia da un mondo che è "altrove", tant'è vero per tutta l'opera, è stato proprio il suo servitore a giudicarlo e a prenderlo in giro, a raccomandarlo di non giocare coi morti. Se volessimo fare un'analisi più antropologica dell'uso della maschere nel tema Don Giovanni, possiamo dedurre che Pulcinella abbia il ruolo di spirito accompagnatore dei defunti. E' lo stesso Pulcinella che domanda alla statua del commendatore se vuole venire a cena, quindi è il servo che smuove un mondo proibito e crea un punto di non ritorno. Pulcinella ha la funzione di psicopompo in diversi canovacci della commedia dell'arte: abbattendo gli avversari usando le maniere brusche, carica il corpo esangue sulle spalle e lo porta via dicendo la sua frase ricorrente "Mo' lo piglio e lo porto al campo santo".

Giacomo Tritto con il suo Convitato di Pietra compone più una farsa in musica, qualcosa di più elegante di un semplice canovaccio di commedia dell'arte ma che conserva tramite il suo linguaggio e l'uso di alcuni strumenti citati prima, la sua forza più ancestrale. Pulcinella nel libretto di Lorenzi ha il posto di Leporello, personaggio sicuramente più raffinato e elegante. Leporello e Pulcinella hanno in comune la fedeltà per il padrone. Ma mentre la devozione di Pulcinella è quasi più simile a quella dell'animale col padrone perché banalmente gli procura uno stipendio (la sua preoccupazione, infatti, alla dipartita del padrone è che non possa dargli lo stipendio e il suo risparmio delle esequie), Leporello invece è mosso quasi più da un affetto. Per cui, mentre con Pulcinella nella scena XIX raggiungiamo livelli comici eccezionali all'invito a cena e alla risposta della Statua, con Leporello si enfatizza l'ineluttabilità del destino che sta avvenendo.

Il presente articolo muove da interrogativi sorti da un'incongruenza tra la realizzazione di questa opera in scena, la cui replica più recente è del 2014 e non riguarda neanche

l'allestimento dell'opera semiseria, bensì addirittura delle vicende che trascrive Molière, e il suo alto valore musicale e teatrale che ancora può comunicare al panorama artistico. In ambito musicale nello specifico, con la messa in scena continua della versione de "Il Don Giovanni" di Mozart, si ignora una sua radice più antica. Nel mondo moderno dell'opera, viene tralasciata la scuola napoletana e partendo dalla produzione di Roberto De Simone del 1995, ho voluto recuperare un punto che non viene più diffuso nei teatri italiani e non solo. L'intenzione del presente progetto è di scavare nell'antropologia più arcaica di quest'opera, laddove io credo un ritorno alle origini sia molto più salvifico e interessante che continuare a dondolarsi tra edizioni moderne senza né arte né parte. Enfatizzare quindi una rappresentazione e una lettura più espressiva e rappresentativa. Cercare, quindi, il suo punto d'incontro tra una versione più borghese e una più popolare facendo luce sul mondo dell'opera; gli attuali direttori artistici non ricercano più interpreti con una formazione adeguata per affrontare tali ruoli.

Non avere cantanti e attori adeguati ci allontana sempre di più dalla storicità e validità dalla rappresentazione storica dello spettacolo. Quest'opera è uno degli immensi esempi che dimostra quanto recitazione e canto fossero un viaggio su un unico binario; cantare le arie trate da opere, in un contesto di musica da camera, ha imborghesito un mondo che era teatrale e significava mettere in scena in musica un dramma.

Cito un pessimo allestimento: ho potuto vedere un "Pulcinella vendicato" (opera di Giovanni Paisiello, 1740-1816) dove l'interprete nonostante fosse Pulcinella in scena, neanche aveva la maschera. Bisogna comprendere che queste opere non sono nate per essere ascoltate, o per essere lette. Voglio ribadire ulteriormente che queste debbano essere guardate e vissute. Quindi ricercando anche costumisti e allestimenti scenici che non debbano essere necessariamente legati a un recupero storico, ma perlomeno che restituiscano la dimensione a metà tra il magico e il grottesco della situazione.

Nello specifico, io stessa mi sto muovendo verso una realizzazione dell'opera, dove in tal specifico caso sto effettuando studi e arrangiamenti di alcune delle musiche su strumenti appartenenti alla cultura musicale partenopea, enfatizzando l'uso dei colascioni e mandolini, tamburelli e altri strumenti che sono a cavallo tra la musica appartenente alla tradizione e quella più da teatro.

Insomma, se ne sentiranno molto presto delle belle, tentando di far crollare la borghesia e il finto accademismo il più possibile.

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